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C'era una volta un Re... e un Papa...
di Patrizia Stella

       Col suo gesto di "carità" fin troppo plateale e pretestuoso, Francesco non ha risolto affatto il problema dei poveri, ma in compenso ha mancato di rispetto verso tutti gli altri (di qualunque condizione sociale o stato) e soprattutto verso Gesù Cristo.


       Papa veramente strano nel suo stile contraddittorio, dalle iniziative personali, spesso arbitrarie e auto-esaltanti, non sollennizza adeguatamente il Giovedì Santo, giorno dell'istituzione di ben due Sacramenti, il Sacerdozio e l'Eucarestia, Sacramenti fondamentali per la vita della Chiesa e del Cristiano.
       Non celebrare la Messa “In Coena Domini” del Giovedì Santo è un gesto di disobbedienza davanti a un preciso mandato che Gesù trasmise ai suoi Apostoli: "Fate questo in memoria di me!”.

       Ricordi Francesco che Gesù non lavò i piedi a illustri sconosciuti o a piacenti signorine, ma bensì ai suoi Apostoli, cioè a coloro che erano destinati a trasmettere il suo mandato e i suoi Sacramenti.

      
Gesù ha lavato i piedi dentro la primissima chiesa, dentro al Cenacolo, mentre Papa Francesco in un Istituto qualunque...
Quousque tandem abutere, Francisce, patientia Dei nostraque? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia?...

Grassetti, colori, parentesi quadre, sottolineature, corsivi
e quanto scritto nello spazio giallo sono generalmente della Redazione

       In un lontano paese, c’era una volta un Re, vedovo, molto amato dal suo popolo perché era buono, giusto e timorato di Dio, che aveva un’unica figlia adorata, destinata a ereditare non solo l’ingente patrimonio, ma soprattutto le responsabilità di governo di un intero popolo. Avvenne che la figlia, Principessa, conobbe un bravo Principe e decisero di sposarsi, con grande gioia del Re che non vedeva l’ora di dare una discendenza al suo Casato. Inutile descrivere i sontuosi preparativi voluti dal Re e da tutta la Corte in vista di un evento così importante per tutti.
 
       Accadde però che, proprio il giorno delle nozze, giunti davanti all’ingresso della Chiesa tutta addobbata a festa, e davanti agli invitati di alto rango, elegantissimi per l’occasione, agli ufficiali in alta uniforme e a tutto il popolo assiepato nei dintorni per far festa, il Re Padre prese una decisione alquanto insolita che suscitò molto scalpore: affidò la figlia al suo Primo Ministro, perchè la accompagnasse all’altare, e si congedò lasciando come giustificazione questa dichiarazione pubblica: “Cari sposi, ministri e dignitari tutti, vista la miseria di molta gente che contrasta con lo sfarzo di questa cerimonia, ho deciso di far festa con gli ultimi, e pertanto chiedo scusa a tutti ma in coscienza ritengo doverosa la mia presenza in mezzo ai poveri piuttosto che in mezzo ai ricchi.”
 
       Lo sgomento che ne seguì fu indescrivibile, a tal punto che qualcuno svenne, altri se ne andarono indignati contro il Re perché veniva meno a un suo preciso dovere di padre, oltre che di regnante, mentre la promessa sposa, accompagnata dal Primo Ministro, procedette imperterrita verso lo sposo che l’attendeva trepidante ai piedi dell’altare, e senza indugio diedero inizio alla cerimonia, desiderosi di poter coronare quanto prima il loro sogno d’amore col matrimonio.
 
       All’inizio della cerimonia religiosa si ebbe un silenzio sepolcrale perché molti invitati si sentivano imbarazzati e quasi coperti di vergogna davanti a questo gesto plateale di umiltà del loro Re, povero con i poveri, mentre loro sfoggiavano indumenti preziosi adatti all’occasione, tuttavia, mano a mano che i minuti e le ore passavano, si notava un malcontento generale con commenti duri e severi che non lasciavano dubbi:
“Ma i poveri sono sempre qui con noi e si poteva festeggiare con loro in qualunque altro momento! Perché umiliare in questa maniera la sua unica figlia tanto amata proprio nel giorno delle sue nozze, rovinando la festa a lei, allo sposo e a tutta la folla dei sudditi, tra cui molti poveri, che avevano il diritto di godere almeno di questa cerimonia unica e irripetibile? Questo insolito gesto potrebbe creare dei precedenti, delle nuove mode pericolose per chi ha compiti di governo ecc.”
E giù mugugni, e critiche, e malcontento, e divisioni, e perfino liti, a tal punto che un giorno così bello, se non fosse stato per l’intervento deciso e coraggioso degli sposi che cercarono, col loro sorriso, di sdrammatizzare la cosa focalizzando l’attenzione sul loro amore, si sarebbe trasformato in tragedia! Per contro altre voci in difesa del Re si alzavano prepotenti:
“Ma voi non capite un bel nulla! Non vi pare sia stato un gesto esemplare quello del nostro Re? Mica ha lasciato tutti per andare a giocare a golf, ma per rimanere con i poveri, con gli ultimi! C’è da prendere esempio per il futuro ecc. ecc.”
 
       Fatto sta che di tutto questo scompiglio pro o contro, una cosa ne scaturì con assoluta certezza: quell’apparente gesto di umiltà del Re, oltre a non aver affatto risolto il problema dei poveri, aveva creato molte divisioni, delle crepe insanabili, delle liti irrisolvibili nel suo stesso regno, tra la sua gente, in mezzo al suo popolo, creando discredito anche nei confronti della sua persona!
 

* * *

 
       Chiedo scusa del paragone forse poco azzeccato tuttavia, con i dovuti distinguo che si devono porre in questi casi, devo confessare che, davanti al secondo rifiuto per il secondo anno dal suo pontificato da parte di Papa Francesco di celebrare solennemente la grande e unica solennità del Giovedì Santo nel “cuore” della cristianità che è San Pietro e in mondovisione con tutti i suoi figli sparsi in tutto il mondo, buoni e cattivi, consacrati o laici, ricchi o poveri, com’era sempre stato fatto in precedenza, adducendo la motivazione di un gesto di carità fin troppo plateale e pretestuoso, mi sono sentita letteralmente trafiggere il cuore, vedendo nella figlia delusa e in un certo senso anche tradita dal Re, non solo tutto il popolo cristiano che si aspettava dal Papa la solenne cerimonia, ma la stessa Chiesa, che era pronta a festeggiare Gesù Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote in uno degli eventi più importanti della storia della Salvezza cristiana, per mano dello stesso Vicario di Cristo, il Papa. E questo non certo per mancanza di rispetto che si deve avere verso tutti, di qualunque condizione e stato sociale, ma per il rispetto sommo che si deve avere innanzitutto per Gesù Cristo e la sua volontà che precede qualunque altro motivo umano.
 
      Però, mentre per altri gesti sconcertanti di questo strano Papa si sono levati commenti pro o contro, critiche o lodi, perché è proprio il suo stile contraddittorio a suscitare vespai e divisioni, è successo invece che, davanti alla decisione gravissima di rinunciare alla solenne celebrazione del Giovedì Santo, il silenzio l’ha fatto da padrone, anzi sembra che la gente abbia accolto con compiacimento questa notizia perché il Papa andava a compiere un’opera di misericordia sopraffina! E così tutti gli animi si sono rasserenati! E invece è sbagliatissimo! È una gravissima omissione passata sotto silenzio perfino da chi ne conosce bene l’importanza e la gravità: Vescovi e Sacerdoti !
      Ma perche? Si chiede la gente che non è più a conoscenza della dottrina cristiana dopo anni di vuoto.
 
       • Perché il Giovedì Santo è il primo dei tre giorni del Triduo pasquale che precedono la Pasqua, cioè la domenica di Risurrezione, giorno importantissimo, da paragonare per solennità alla stessa Pasqua, perché giorno dell’Istituzione di ben due Sacramenti voluti da Gesù Cristo: il Sacerdozio e l’Eucaristia, Sacramenti fondanti e costitutivi della Chiesa Cattolica che Gesù ha in un certo senso, “convalidato, suggellato” il giorno seguente, Venerdì Santo, con la sua Passione e Morte in croce. Staccare la Pasqua dal Venerdì e dal Giovedì Santo non è possibile perché sono un tutt’uno, una continuità che sfocia nel giorno della Risurrezione! Non celebrare la Messa “In Coena Domini” del Giovedì Santo è un gesto di disobbedienza davanti a un preciso mandato che Gesù trasmise ai suoi Apostoli: “Fate questo in memoria di me!”. In un certo senso è come rifiutare di celebrare la Pasqua, o celebrarne solo una parte.
 
       • Inoltre focalizzare l’attenzione del Giovedì Santo solo sul gesto della lavanda dei piedi che è secondario rispetto a tutta la celebrazione (perché gesto simbolico che invita all’umiltà e alla purificazione dal peccato, ma non sacramentale) è assai pericoloso. Infatti Cristo con quel gesto si umilia per farsi servo e per purificare coloro che dovranno assumere il suo Corpo e il suo Sangue, ma non lavò i piedi a degli sconosciuti, bensì ai suoi Apostoli lì presenti, cioè a coloro che erano destinati a trasmettere il suo mandato e i suoi Sacramenti, mentre Papa Francesco nemmeno si recò in una Chiesa consacrata ma in un Istituto qualunque, in una stanza priva di tabernacolo a compiere un gesto che, per quanto umile e caritatevole (neppure sappiamo se fu accompagnato o meno dalla Messa!), non poteva certo sostituire un mandato divino per volere di Gesù Cristo come quello del Giovedì Santo celebrato con Vescovi e Sacerdoti, successori degli Apostoli, e con tutto il popolo di Dio bisognoso di essere confermato nella fede.
 
       • Questo potrebbe anche avere delle gravi ripercussioni perché, se per caso anche i Vescovi decidessero di imitare l’esempio del Papa e cioè di sostituire la celebrazione liturgica del Giovedì Santo con un gesto di carità? Ma è meglio obbedire a Dio o agli uomini? E’ più importante il mandato di Gesù Cristo, la liturgia della Chiesa dalla quale scaturiscono grazie e benedizioni divine per tutta l’umanità, o le nostre iniziative personali, spesso arbitrarie e auto-esaltanti, a scapito dei diritti di Dio e di quei doni divini che fanno la santità? E senza santità, senza liturgia, la Chiesa affonda inesorabilmente in un mare di sabbie mobili. (Daniele Nigro, I diritti di Dio, La liturgia dopo il Vaticano II, ed. Sugarco)
 
       Forse che, alla fine, non siamo tutti dei “poveracci” pieni di tribolazioni e bisognosi della Parola di Dio, della Sua Salvezza, del suo Perdono e della sua Grazia? Forse che non ci dobbiamo presentare tutti, poveri e ricchi, davanti al cospetto di Dio per essere giudicati sul nostro operato? E allora finchè siamo sulla terra abbiamo tutti il dovere di aiutarci con la correzione fraterna e la preghiera perché nessuno di noi è confermato in grazia, nemmeno i Consacrati del Signore nella più alta gerarchia della Chiesa, perché tutti dobbiamo lottare fino all’ultimo istante della nostra vita contro le insidie del diavolo (pronto a divorarci come leone ruggente, dice S. Pietro), e pertanto tutti abbiamo il dovere di spendere bene gli anni che ci sono concessi sulla terra, anche in mezzo a tribolazioni e dolori, però conservando la fede in Gesù Cristo! Questo nostro prezioso “tempo della fede” sarà la “moneta” con cui potremo comprare l’Eternità, e non è cosa da poco, visto che è una sorte che ci accomuna tutti. (F. Rancan, La moneta del tempo, Ed. Fede & Cultura).
 
Patrizia Stella
 
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